L’isola di Gorè è uno di quei santuari che ci ricordano le nostre colpe, le colpe dell’uomo bianco. Da qui partivano gli schiavi verso le Americhe, letteralmente rastrellati dai francesi nella loro Africa Occidentale. La maison des esclaves, la casa degli schiavi, dove venivano rinchiusi in condizioni disumane ne è l’emblema. Passeggiando per le vie acciottolate e riscaldate dal freddo sole senegalese, Enea, un mio amico e collega, si ferma e quasi mi sussurra: “ qui dovrebbero venirci molte persone che inveiscono contro i migranti e i clandestini, per guardare cosa noi europei abbiamo fatto con il commercio degli schiavi”. Una frase spontanea, sincera che chiosa la visita che stiamo concludendo alla maison des esclaves. Appena usciti mi si para davanti una bambina avrà avuto 8 o 9 anni, vende braccialetti, collane, monili senegalesi. Mi rincorre, inizia ad attaccare bottone parlandomi e dicendomi se voglio comprare qualcosa, se voglio visitare il suo piccolo negozio. Ogni volta che nel mondo mi trovo di fronte a dei bambini che vendono, non è affatto facile. Spesso sono bambini che lavorano per qualcuno che li manda sulla strada a farlo e altrettanto spesso sono bambini che non vanno a scuola, non hanno una famiglia e la loro infanzia si perde nelle crepe delle strade terrose del mondo. Né ho visti tanti nelle strade principali di Accra, sotto il cociente sole ed anche di notte evitando le macchine in corsa. Ho visto bambini sperduti sulle Ande vendendo souvenir Inca e badando allo stesso tempo ai fratellini più piccoli, né ho visti tanti in Senegal dove mendicano cibo e come cani si spartiscono quello che riescono a racimolare, strappandoti dalle mani il cibo offerto ed a loro volta strappandolo dalle mani del proprio compagno. La bambina continua a seguirmi, studiarmi, parlarmi ed alla fine decido di comprarle un braccialetto, non ho moneta spiccia, non importa glielo pago il triplo del valore reale, sperando che quel piccolo contributo possa essere utile e non finisca nelle tasche di qualcuno che la sta sfruttando. Ma il nostro incontro non finisce lì, Fatou, così si chiama la bambina, continua a seguirmi invitandomi ad andare nel suo negozio lì vicino per vedere altra mercanzia. Allora inizio a dialogare con lei e ascolto la storia della sua vita. Suo padre non lo ha mai conosciuto, o è morto o se ne andato prima che lei nascesse, mentre la madre si trova a Dakar, sulla terraferma, e non sa quando ritornerà sull’isola. Dice di vivere con la nonna e credo che non sta più frequentando la scuola. Tutti i giorni fa il giro della piccola isola provando a vendere qualche monile ai turisti. Il dialogo si fa più serrato, intenso e decido di conoscere più affondo la vita di questa piccola bambina, così mi stacco dal gruppo di colleghi in gita e mi faccio condurre da Fatou al suo negozietto. Il negozietto è veramente minuscolo e mi presenta anche la sua nonna, una signora molto vecchia, quasi ceca, che siede stancamente su una sedia a guardia dei suoi souvenir senegalesi. La vita di Fatou è tutta là, fra il negozio e la maison des esclaves. La bambina e la nonna cercano di vendermi altri souvenir, ma gli dico che io vivo in Senegal, lo conosco da molti anni ed ho la casa piena di maschere e monili senegalesi e ne ho già acquistati altri proprio da Fatou. Però poi mi sovviene che il mio amico Enea cercava delle stoffe senegalesi per regalarle a sua moglie Laura. Allora dico a Fatou di aspettare che forse ho dei clienti per lei. Tornato verso il porto incontro Enea e gli propongo di venire all’ormai mio bazar, avendo preso a cuore Fatou e sua nonna. Una volta lì Enea trova e compra delle stoffe da portare a sua moglie. Fatou è molto felice di aver avuto così tanti clienti e credo anche la nonna. Io ed Enea, ringraziando in wolof la lingua locale, ci avviamo al porto per riprendere il traghetto che ci condurrà di nuovo a Dakar. Saluto Fatou, dicendole che deve tornare a scuola, che è importante. Lei annuisce e sorride. Io mi volto sto per salire sul traghetto, mentre vedo Fatou che mi sta aspettando sul molo, si avvicina a me e stringedomi la mano mi dona un altro braccialetto senegalese, un piccolo e commovente gesto per ringraziarmi di averle comprato qualcosa e di aver portato nel suo negozietto un altro cliente. Mi sento impotente, salgo sul traghetto e spero con tutto me stesso che la vita possa riservare a quella piccola bambina un futuro migliore, un futuro che possa valorizzare le sue qualità ed i suoi sogni. La stoffa che Enea ha acquistato ora si trova ad Addis Abeba, appesa alla sua parete del salotto, e potrà raccontare ad un altro bambino, suo figlio, che quella stoffa viene da molto lontano, dall’altra parte dell’Africa, dal punto più estremo dell’Africa stessa l’isola di Gorè, e che è stata acquistata presso un negozietto di una bambina i cui sogni, speriamo entrambi, si possano avverare e non perdere fra le scogliere frastagliete dell’isola degli schiavi.