Sono cresciuto nelle vecchie cantine dei Castelli Romani, dove i tavoli di legno sono gonfi delle gocce di vino, cadute dai bicchieri o dai quartini o frasche (nomi dialettili per le diverse bottiglie del vino). Sono cresciuto nelle tavole domenicali vestite a festa, condividendo un bicchiere di vino con mio padre. Sono cresciuto nel simposio, di greca origine, dove il pasto ed il vino servivono solamente per parlare, dialogare, filosofeggiare con i commensali presenti.
In questa prospettiva si andava oltre il semplice sostentarsi, il pasto era solo un mezzo funzionale per entrare in un mondo trascendete, fatto di riflessioni e dialoghi sulla vita, sul sapere, o semplicemente per ridere e passare un momento di spensieratezza. Il cibo nella nostra cultura figlia dell’antica Grecia, ha questa funzione, ed ho molti ricordi stupendi a riguardo; dalle cene natalizie, ad i pic-nic fuori porta, o le cene poetiche con gli amici di una vita. In Africa, questo simposio non esiste, si mangia per sostentarsi, non si parla, non si dialoga, sono altri i momenti per farlo. In Senegal mi sono trovato a mangiare da un piatto comune, dove un’anziana del posto, mi sminuzzava con le sue mani il pollo, per poi porgimi i pezzi migliori, una diversa forma di condivisione, si condivide il cibo, non i pensieri. A Freetown ho mangiato con i ragazzi dello slum, tutti assieme da una stessa pentola, in piedi nella notte scura, mangiando con rispetto e silenzio, perché quel pasto era il primo e l’ultimo della loro giornata. Ad Abidjan sono stato invitato a pranzo da una famiglia della Parrocchia salesiana, dove avevano preparato il pranzo solo per noi, e solo noi abbiamo pranzato, mentre loro i padroni di casa, si limitavano principalmente a servirici, per onorare l’ospite che era venuto in casa loro, solo dopo aver terminato il nostro pasto, loro hanno cominciato a mangiare. Lo stesso riguardo lo avuto in un villaggio della Tanzania, dove il capo famiglia ci offri il meglio che aveva a disposizione, ugali (polenta di mais bianca) e latte di capra appena munto, una prelibatezza ed un alimento molto costoso per loro. Con questo gesto dimostrarono l’enorme rispetto ed accoglienza verso l’ospite. Anche in Ghana il momento del pasto, è più una condivisione del cibo che dei pensieri, si mangia in silenzio. Al principio questo modo di mangiare africano per me fu uno shock, non ero pronto a mettere da parte un simposio, che è parte di me, fin dentro le viscere, non lo ero affatto. Però poi una notte ad Ashaiman, compresi che questo modo di pranzare o cenare, nasconde un simposio nascosto, silenzioso, che bisogna solo essere pronti a cogliere ed assaporare. Eravamo una ventina di persone, varie nazionalità, ma per lo più africani, e quando la cena fini, piano piano si alzò dai commensali, un canto, una musica che avvolse tutti, creando una vera e propria comunione dei nostri spiriti. Sembrava surreale, il canto venne fuori spontanea, come l’acqua di una sorgiva, dapprima lento, poi copioso e forte. Lì ritrovai quel simposio della mia infanzia, della mia vita passata in Italia, e compresi l’essenza del condividere il cibo in Africa. Sono diversi i tempi, le modalità, mentre in Occidente, l’antico simposio, ti accompagna dall’aperitivo, da quando i commensali suonano alla tua porta, qui in Africa, il simposio inizia appena termina il pasto, perché dopo aver mangiato ed essersi rifocillati si ha la forza per cantare, danzare e ridere. Dovunque si va su questa terra, si può chiudere un cerchio, ci è data la possibilità di condividere, magari con modalità e tempi diversi, ma sempre si può; simposiare, partager, sharing, e compartir.
Bellissimo post.. ricordo quando visitavo mia nonna in Ghana e mi sgridava sempre quando cercavo di iniziare una conversazione durante il pasto. Ero abituata al modo italiano e non la capivo. Ha tutto senso ora.
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